Da tempo stiamo assistendo, popcorn alla mano, alla Royal Rumble mediatica tra professionisti e opinionisti di ogni genere sul caso dei follower falsi di Beppe Grillo. Proprio ieri, infatti, è stata diffusa un ricerca condotta dal professor Marco Camisani Calzolari, il quale è già balzato agli onori della cronaca per aver provato a dimostrare come buona parte dei follower dei grandi brand sia in realtà dei BOT, cioè account controllati da programmi senza nessuna identità reale alle spalle.
Dopo avere letto la metodologia della ricerca ci sentiamo di dire di non condividerne pienamente le conclusioni. E’ vero che la pratica di acquistare follower finti è molto diffusa e può gonfiare all’inverosimile gli account Twitter di alcuni personaggi famosi e aziende. Tuttavia non è detto il contrario: cioè che un account con grande visibilità, specialmente se è quello ufficiale di un personaggio noto al web come Beppe Grillo (non un utente dell’ultima ora), debba necessariamente essere seguito da orde di follower falsi o comprati al mercato nero.
Secondo la metodologia utilizzata da Camisani Calzolari anche un utente, reale, che apra un account su Twitter, perché ne ha sentito parlare da TV e giornali, ma che non vi partecipa attivamente, è definito come BOT. Perché magari non ha un’immagine profilo o perché non twitta quasi mai, oppure perché non contiene una bio o non ha mai messo un link o molte di queste cose assieme. Insomma, ci sembrano queste delle classificazioni forse un po’ semplicistiche per individuare un account frutto di un software. Forse le percentuali della ricerca andrebbero un po’ riviste.
Del resto è intuibile come mai un utente che non ha mai twittato e che ha semplicemente creato il proprio account possa seguire Beppe Grillo. Pensateci: Grillo è una delle persone più note online e io sono un nuovo utente di Twitter che inizia ad usare la piattaforma. Mi metto quindi a seguire qualche account di personaggi famosi… ed ecco allora che inizio a seguire Beppe Grillo, Severgnini, Jovanotti o altri italiani e internazionali. Dopodiché scopro che in realtà Twitter non fa per me e smetto di usarlo, pur mantenendolo attivo (perché complicato, perché non ho soddisfazione ad usarlo, perché mi aspettavo una cosa diversa etc…).
Per questo motivo dovrei essere definito, in modo anche un po’ scortese, un utente falso?
Questa riflessione si inserisce in un tema molto più ampio e dalla portata quasi epistemologica: possiamo misurare in modo quantitativo l’influenza delle persone e delle aziende online?
E’ vero che chi ha più follower o che riesce a dar vita a più interazioni di altri è per questo più influente attraverso le sue opinioni? La risposta secondo noi è no. In questo caso si può parlare di notorietà o di visibilità online, direttamente proporzionale al numero di contatti, ma non di influenza vera e propria.
Pensiamo che l’influenza in questo caso si basi soprattutto sulla forza delle idee, una componente in gran parte qualitativa. Le idee non si possono sommare, né si possono contare come si fa con gli oggetti o con le persone perché sono sempre relative “a qualcosa”. Così come non c’è un Beppe Grillo in ognuna delle teste dei suoi follower ma solo idee relative a quello che dice, spesso molto differenti.